Come è possibile fare a meno degli OPGA

di Luigi Benevelli

La scelta di chiudere gli ospedali psichiatrici giudiziari (opg) rappresenta oggi una sfida importante per il Parlamento e l’Amministrazione penitenziaria e la sfida più rilevante e inquietante per la psichiatria di comunità italiana e per tutto il servizio sanitario nazionale; dal suo esito, vale a dire se si riuscirà a realizzarla e come si riuscirà a realizzarla, dipenderanno i possibili nuovi assetti del Codice penale, la civiltà del sistema penitenziario, la qualità dell’assistenza psichiatrica pubblica nel nostro paese: ne sono segnale le affermazioni del presidente del Senato Schifani e le cautele del sen. Marino nell’occasione dell’incontro del 9 giugno scorso a Roma. Per una discussione utile bisogna decidere se e come modificare il Codice penale a proposito della misura di sicurezza e dell’imputabilità dei pazienti autori di reato (la sentenza n. 9163, 8 marzo 2005 delle Sezioni Penali riunite della Corte di Cassazione ha mostrato quali e quanti disastri provoca il mantenimento del regime della non-imputabilità e la sua estensione). Ma bisogna pensare a quali indicazioni dare circa i luoghi e i titolari della cura.
Da più di una decina d’anni la psichiatria di comunità italiana sta sperimentando, unica al mondo (solo recentemente si è avviata sulla strada da noi aperta l’Unione Argentina) un’assistenza psichiatrica senza manicomi che, pur fra molte difficoltà e non senza gravi problemi in molti luoghi, sta tenendo. Tutto questo è stato reso possibile dal fatto che la riforma del 1978 ha come luogo della cura Il “territorio”, la comunità civile di riferimento del paziente, con i suoi servizi e le sue opportunità; un approccio al paziente con disturbo mentale centrato sulla ricerca del suo consenso e riconoscendo lo stesso protagonista della propria cura e del proprio destino; un approccio che contesta la presunzione di pericolosità sociale del paziente psichiatrico e che declina i comportamenti problematici sotto il segno dell’aggressività. Da qui, per fare un esempio, nasce negli Spdc a porte aperte l’adozione delle tecniche di de-escalation.
Negli opg sono internati cittadini con disturbo mentale ritenuti socialmente pericolosi per aver compiuto reati. Negli opg i codici di interpretazione derivati dalla criminologia e dalla psichiatria forense positivistiche continuano a prevalere su quelli della psichiatra di comunità “civile” e del movimento per la salute mentale. L’osservazione e l’esperienza mostrano che le dimissioni dagli opg non sono disposte dai medici, ma dai magistrati, che dagli opg è difficile dimettere soprattutto perché i cittadini internati sono caricati di un enorme pregiudizio, spesso condiviso da coloro che li dovrebbero aiutare a curarsi e riabilitarsi come ci dicono le proroghe di centinaia di internamenti anche dopo che, in sede di riesame della pericolosità, le persone sono state riconosciute (dal magistrato) non più socialmente pericolose perché non ci sarebbe chi si occupa e risponde di loro fuori dall’opg. Lo dimostra il fatto che quando si riesce a dimettere, la destinazione di gran lunga prevalente è quella di residenze ad alta protezione, dove il controllo sociale (e farmacologico) è molto forte.
Gli opg, quando riescono ad essere stabilimenti sanitari come nel caso di quello di Castiglione delle Stiviere, sono niente altro che manicomi, per di più sottoposti ai regolamenti degli Istituti di 2 prevenzione e pena, impegnati nella gestione della vita quotidiana di persone con disturbi mentali per anni. Escluso quello di Castglione d/S, in tutti gli altri il lavoro di assistenza è affidato ad agenti della Polizia penitenziaria; a Castiglione d/S l’assistenza è condotta da personale sanitario che però è caricato da compiti di custodia delle persone internate. Queste semplici osservazioni ci fanno capire quanto le norme, gli istituti, le pratiche che regolano la gestione (più che la cura) dei pazienti rei folli stridano, fino ad esserne incompatibili, con le norme, le acquisizioni, le finalità e le pratiche dell’assistenza psichiatrica pubblica italiana: da più di trent’anni un cittadino con disturbi mentali ha diritto a non subire limitazioni della libertà
personale, se non nelle situazioni indicate dalla legge per il trattamento sanitario obbligatorio.
Bisogna garantire che un cittadino con disturbi mentali che abbia compiuto un reato abbia diritto a (e debba) essere sanzionato in relazione al reato e non in relazione alla patologia di cui è affetto.
Inoltre, alla chiusura degli opg consegue che, se si escludono le pene alternative, ci si deve misurare con i servizi e le opportunità di cura offerte dalle carceri. Da qui parte la riflessione sulla condizione dei cittadini detenuti nelle carceri della Repubblica. Lo stato attuale è talmente drammatico e disumano, specie in relazione al sovraffollamento, che le considerazioni che seguono possono apparire astratte. Tuttavia, facendo uno sforzo, non potremo che pensare ad una Giustizia che abbia ridotto al minimo possibile le pene detentive per tutti i cittadini autori di reato. E anche in questo caso “ottimale” sappiamo che comunque una parte consistente della popolazione carceraria soffre di disturbi mentali, il che ci obbliga a considerare quali livelli di complessità del servizio di assistenza psichiatrica possiamo/dobbiamo garantire. Qui si apre uno spazio di lavoro enorme intorno al tema del diritto alla salute (mentale) in carcere e dei servizi correlati, da garantire universalmente, un tema che spero diventi il centro della discussione e della proposta per la chiusura degli opg. A tale riguardo si dovrà vedere che cosa sono in grado di mettere in campo da subito le Regioni, titolari dell’assistenza sanitaria con le loro Aziende sanitarie e i loro Dipartimenti di salute mentale, nonché l’Amministrazione penitenziaria.
Alla luce di queste considerazioni, per la complessità dei meccanismi e delle regole da modificare e non solo per l’indifferenza e l’ignavia della politica, sono comprensibili le inadempienze e i ritardi accumulati nell’attuazione del programma indicato dal Dpcm 1 aprile 2008.
Intanto, da subito, il Ministero della salute d’intesa con le Regioni, potrebbe riconoscere, premiare, anche economicamente, quelle aziende sanitarie e quei Dipartimenti di salute mentale che si facciano carico dei propri pazienti internati in opg, che si rendano disponibili a garantire misure alternative all’internamento, che sviluppino progetti di intervento nelle carceri per la salute della popolazione dei detenuti, in collaborazione con l’Amministrazione penitenziaria.
Potrebbe essere il segno dell’interesse dello Stato a mettere mano alla complicata, faticosa vicenda della chiusura degli opg.